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DENTRO LE PROTESTE NO KINGS: LA NUOVA RIVOLUZIONE AMERICANA

Articolo a cura di Maria Vittoria Adagio

Revisionato da Matteo Biasetti


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Introduzione

La scorsa settimana milioni di cittadini statunitensi sono scesi nelle le strade delle principali città americane per condannare un presidente che, come dice il loro motto, si comporta come un Re, e per protestare contro un’amministrazione colpevole di star realizzando la più grande deportazione di massa ad aver interessato il supercontinente occidentale negli ultimi tempi. La marcia porta il nome del motto che echeggia dalle bocche dei manifestanti, tra i grattacieli delle Big-Tech americane: No Kings! Chicago, Portland, Washington DC e Los Angeles sono solo alcune delle città palcoscenico di questa rivolta che senza dubbio è riuscita a superare i numeri di quella che lo scorso 14 giugno aveva mosso le stesse città. Funzionari democratici di tutta America come Chuck Schumer – senatore leader della minoranza al Campidoglio –, Gavin Newsom – governatore della California – fino alla stessa Kamala Harris, hanno scritto parole di incoraggiamento sui loro profili social, sincerandosi con i manifestanti di comportarsi in maniera pacifica ma, soprattutto, di alzare la voce per proteggere loro stessi e le loro comunità, perché “non ci sono Re negli Stati Uniti d’America”.

Le proteste del 14 giugno

È il 14 giugno 2025 quando migliaia di cittadini americani sono scesi nelle città più grandi e progressiste di Stati altrimenti Repubblicani per dare vita alle prime manifestazioni No Kings. A Washington, manifestanti pacifisti esibivano cartelli con le scritte “Homes not drones” e “No to Trump’s fascist military parade” non lontano da un’esposizione di veicoli blindati, elicotteri e attrezzature militari sul National Mall, allestito per la parata militare di Trump per commemorare il 250esimo anniversario dalla nascita dell’esercito statunitense, coincidente con il 79esimo compleanno dello stesso Presidente.

I dati hanno registrato una partecipazione elevata dei cittadini nelle principali città di stati rossi: tra i numeri più rilevanti gli almeno quattordicimila che hanno protestato a Nashville, le diecimila e più persone che hanno partecipato alle proteste di Austin, Dallas e Houston; le tremila a Fargo, nel North Dakota; le altre migliaia a Topeka, Boise e Little Rock, o le quasi mille persone che si sono presentate a Charleston nella Carolina del Sud.

Nel frattempo, i portavoce Repubblicani di tutto il paese minacciavano in anticipo i manifestanti di conseguenze legali e persino fisiche, mentre poco dopo il Segretario per la Difesa Pete Hegseth, in una testimonianza di fronte al Senate Armed Service Committee, veniva affrontato dalla Senatrice Elissa Slotkin  sulla veridicità di un presunto ordine alle forze militari di arrestare o detenere protestanti, di utilizzare strumenti informatici per investigare sugli stessi o di utilizzare armi letali sui protestanti disarmati, rifiutandosi di rispondere alla domanda sull’utilizzo della forza letale.

Quei raduni, che hanno visto l’intervento degli agenti a cavallo con aste di legno e manganelli e l’uso di gas lacrimogeni per colpire i manifestanti, hanno stigmatizzato proprio quello che sarebbe stato un esempio di egocentrismo da parte di Trump (Washington), ma soprattutto hanno ribadito come l’attitudine e le azioni del presidente siano considerate autoritarie da chi per giorni è sceso in piazza.


La No Kings Protest del 18 ottobre

Il 18 ottobre 2025 i cittadini si sono uniti nuovamente in una marcia contro il presidente Trump e la sua amministrazione per rinnovare le richieste fatte. Sabato mattina circa 7 milioni di persone hanno sfilato per le strade delle principali città simbolo di lotte per la rivendicazione di diritti civili e di movimenti per i diritti degli immigrati, tra queste: Los Angeles, New York, Atlanta, Portland, Washington DC, Seattle e Chicago. Secondo i media locali, sarebbero state circa 2.600 le dimostrazioni in tutto il paese. I raduni hanno offerto un quadro chiaro non solo dell’ampiezza della resistenza al presidente e alla sua amministrazione, ma anche della diversità della coalizione che si è formata; Ezra Levin e Leah Greenberg, cofondatori dell’organizzazione no-profit Indivisible, promotrice principale delle manifestazioni insieme a MoveOn.org, hanno dichiarato: “Oggi milioni di americani si sono riuniti per respingere l’autoritarismo e ricordare al mondo che la nostra democrazia appartiene al popolo, non all’ambizione di un solo uomo”.

L’agenzia di stampa canadese Reuters ha riferito che nel nord della Virginia molti manifestanti sono stati visti camminare su cavalcavia attraverso strade dirette a Washington, e diverse centinaia di persone si sono riunite nel cerchio vicino al cimitero nazionale di Arlington, nei cui pressi Trump sta considerando di costruire un arco attraverso il ponte dal Lincoln Memorial. La capitale americana ha registrato una partecipazione tra le più elevate 

Nella East Coast, a New York i manifestanti si sono radunati in luoghi simbolici come Times Square, dove alcune sezioni della folla intonavano slogan come “Ecco come appare la democrazia” e “Trump deve andarsene subito” sventolando cartelli con scritte che condannavano ancora una volta la politica repressiva in materia di immigrazione.

In luoghi come Portland la manifestazione è diventata una festa di strada: bande musicali, enormi striscioni con il preambolo della costituzione degli Stati Uniti “We are the People” che le persone potevano firmare e manifestanti in costumi da rana, che sono diventati il simbolo del movimento in Oregon.

A Los Angeles la folla si è radunata fuori dal comune della città, dove alcuni protestanti hanno sventolato bandiere messicane, divenute il simbolo della resistenza e della protesta dopo le violente repressioni degli immigranti che si sono registrate dall’arrivo della nuova amministrazione alla Casa Bianca.

Ad aprire la manifestazione a Washington DC, il discorso del Senatore del Vermont Barnie Sanders (candidato alle elezioni primarie del Partito Democratico del 2020 e poi ritiratosi in vista delle elezioni presidenziali di novembre): una denuncia dell’”autoritarismo” di Trump (mai accenni a fascismo o dittatura) e del potere dell’oligarchia aziendale, un elenco di mali sociali – disuguaglianza, povertà, distruzione dell’istruzione, degli alloggi e della sanità pubblica  – e un corrispondente elenco di forme sociali. Quella di Sanders non è un’analisi sociale o storica, né una proposta di una strategia per fermare la spinta di Trump. Il senatore racconta una storia, quella di un continente che ottiene l’indipendenza dalla corona inglese nel 1789 e che oggi vede “quell’esperimento affidato alle mani del popolo americano” riferito al “tentativo” di democrazia instaurata dal primo presidente George Washington, “come mai prima, in pericolo”.

Fa eco il senatore Murphy, anch’egli intervenuto rivendicando quelli che sarebbero i valori della sfilata: la rivoluzione originaria, quella che 249 anni fa ha incarnato la ribellione contro la corona inglese e ha dato via all’esperimento americano, quell’esperimento, ha detto il senatore, che è oggi in bilico su di un baratro: “non siamo sulla soglia di una presa di potere autoritaria, ci troviamo nel pieno. La nostra democrazia corre un grave pericolo”.

Chris Murphy, senatore per il Connecticut, era stato protagonista lo scorso 8 ottobre di un intervento al Senato intitolato Five year plan. Un’analisi tecnica di quello che, secondo lui, sarebbe il piano del presidente Trump per convertire gli Stati Uniti da una democrazia governata dalla legge a uno stato autoritario governato da forza, censura e favoritismi, in soli 5 anni. Il discorso del senatore è arrivato mentre Trump era occupato ad inviare la Guardia Nazionale della California in Oregon e la Guardia Nazionale del Texas a Chicago contro l’opposizione veemente della governatrice dell’Oregon Tina Kotek, del governatore dell’Illinois J.B. Pritzker e del governatore Californiano Newsom. Murphy ha spiegato come la militarizzazione delle forze dell’ordine sia connessa alle azioni di Trump per premiare i fedeli e punire i nemici, e ha concluso affermando che la presa di potere autoritaria non è in arrivo, è già arrivata e che non è troppo tardi per accorgersene e fermarla.

Dal 14 giugno, però, le cose sono un po’ cambiate: andando a ritroso, il fronte in Palestina ha dimostrato di non poter giugnere a una conclusione nonostante gli accordi di pace proprio del presidente Trump siano appena stati conclusi a Sharm, due settimane prima. Le esplosioni a Gaza City continuano ad uccidere decine di civili al giorno mentre il resto della popolazione è stremata dalla carestia. L’occupazione della Cisgiordania è tutt’ora in atto ma la sua annessione avrebbe subito un arresto solo recentemente grazie a un monito lanciato a Tel Aviv da Marco Rubio – segretario di stato – il 22 settembre, che stringe con l’America una storica amicizia. Con un attacco mirato ad uccidere alcuni leader di Hamas, Israele ha messo nuovamente a repentaglio la stabilità del Golfo. L’operazione, risultata inconcludente ma provocando comunque la morte di 5 persone, ha certamente evidenziato la vulnerabilità delle monarchie del Golfo e ha posto sotto i riflettori una possibile crisi degli Accordi di Abramo promossi dagli Stati Uniti proprio sotto l’amministrazione di Trump nel 2020. 

Nel frattempo, a Los Angeles il 14 ottobre la Contea ha votato e dichiarato lo stato di emergenza dovuto all’intensificazione dei raid degli agenti federali ICE iniziata i primi di giugno, con dimostrazioni che sono spesso sfociate in episodi violenti. Uno scenario prevedibile questo visto che Los Angeles ospita quasi un milione di immigranti privi di documenti, il più grande numero di qualsiasi altro luogo negli Stati Uniti d’America, rimanendo per decenni un catalizzatore del movimento statunitense per i diritti degli immigrati.

Nei giorni precedenti alle proteste alcuni alleati di Trump hanno definito le proteste di No Kings come antiamericane e guidate dall’antifa, il movimento antifascista decentralizzato, sostenendo anche che le stesse  siano la causa del prolungamento dello shutdown del governo (il primo in sette anni  dopo quello durato da dicembre 2018 a fine gennaio 2019, durante il primo mandato di Trump) avvenuto l’1 Ottobre e dovuto all’incapacità del Congresso di approvare un disegno di legge di spesa riguardante fondi da stanziare nel settore pubblico. Trump ha inoltre incolpato i democratici e ha minacciato di punire il partito e i suoi elettori con l’interruzione delle priorità dell’agenda progressista e di realizzare tagli massicci nel settore pubblico, persino con licenziamenti di molte persone che ne sarebbero gravemente colpite. “Sono democratici, diventeranno democratici” ha detto il presidente ai giornalisti nello studio ovale.

I governatori di alcuni stati repubblicani hanno attivato la Guardia Nazionale, come nel caso del Texas dove il governatore Gregg Abbott, in un comunicato, aveva riferito alla stampa di aver ordinato al Dipartimento di Pubblica sicurezza l’attivazione dell’esercito a causa della “manifestazione legata all’antifa” riferendosi alle proteste No Kings imminenti. Alla Camera lo speaker Mike Johnson aveva definito i raduni organizzati come “il raduno dell’odio per l’America” e aveva avvertito che sarebbero stati pieni di “tipi antifa”. La tensione acuita a causa delle accuse di “sovversione interna” dai portatori dei principi della rivoluzione conservatrice è culminata il giorno stesso in tarda serata con un video condiviso sui social media personali e governativi del presidente che mostrano lo stesso sorvolare una folla di manifestanti, in quella che sembra essere Times Square mentre indossa una corona, mentre pilota un jet da combattimento e “bombarda” una folla di manifestanti No Kings con del liquido marrone. In sottofondo “Danger Zone” di Kenny Loggins, un riferimento ai film di Top Gun.


I raid dell'ICE

Dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio, Trump ha ampliato la portata dei suoi poteri presidenziali, utilizzando ordini esecutivi per smantellare parti del governo federale e dislocare corpi delle Guardie Nazionali nelle città nonostante le obiezioni dei governatori degli stessi Stati interessati. Lo stesso presidente ha detto che le sue azioni sono necessarie per ricostruire il paese che versa in uno stato di crisi, respingendo le accuse, definendole isteriche, che gli sono state rivolte secondo le quali si starebbe comportando come un dittatore o un tiranno. In un’intervista con Fox News, programmata per andare in onda la domenica successiva alle manifestazioni, Trump è apparso nel tentativo di affrontare la questione più recente: “sai, si riferiscono a me come un re, io non sono un re” e anche “Un re? Un atto non è un re”.

L’ICE è l’agenzia federale statunitense per la sicurezza delle frontiere e l’immigrazione nata nel 2003 dopo gli attacchi dell’11 Settembre e tornata al centro dell’attenzione con il secondo mandato di Trump (nei governi precedenti la Customs and Boarder protection agency giocava il ruolo principale nella custodia di immigranti al confine con il Messico). Le operazioni hanno come obiettivo quello di arrestare quanti più stranieri (“aliens” ndt) che si trovano illegalmente nel paese con precedenti penali, con la finalità, eventualmente ma non automaticamente, di rimuoverli e deportarli. In prospettiva delle proteste, una conferenza stampa organizzata dai leader del movimento si è tenuta di mercoledì, in cui gli speaker dell’evento avevano ipotizzato l’eventuale intromissione della guardia nazionale aggiungendo “we are prepared for that”, siamo pronti a questo.

Il governo è stato chiaro: se sei venuto in America illegalmente, verrai trovato, arrestato e deportato grazie a un processo che, come ha spiegato Todd Lyons – direttore dell’ICE – durante il Border Security Expo tenutosi a Phoenix, deve assimilarsi a quello di un business, “Amazon Prime per esseri umani”. Secondo la testata giornalistica The Guardian, che riporta dati ufficiali, le operazioni coordinate dagli agenti federali hanno permesso finora l’arresto di 16,523 persone, senza però alcun precedente penale, 15,725 persone invece con precedenti e 13,767 con un giudizio penale in pendenza, aggiungendo poi le persone portate in custodia agli agenti dagli ufficiali addetti ai confini che hanno concluso arresti sulla base di un sospetto di violazione delle leggi sull’immigrazione:  i centri di detenzione per immigrati contano un totale di 59,762 detenuti. Per la prima volta, i numeri rilasciati dall’ICE dimostrano che il numero totale di immigranti senza precedenti penali nelle prigioni ha sorpassato quello delle persone detenute sulla base di un giudizio penale definitivo o di uno in pendenza.

Negli ultimi mesi a Chicago è nata HANDS OFF CHICAGO, un tentativo popolare di opporre l’intervento militare per dimostrare alla nazione e al mondo che la città è unita nell’opposizione a questi attacchi illegali e non necessari. In risposta, sabato 4 ottobre il presidente degli Stati Uniti ha firmato un ordine esecutivo per l’invio di 300 membri della Guardia Nazionale “per proteggere agenti e proprietà federali”, come ha annunciato la sua portavoce Abigail Jackson. Allo stesso tempo un giudice federale ha emesso un’ordinanza per bloccare l’ordine da lui emesso a Portland, un’altra città democratica presa di mira.

In un articolo intitolato “Immigration blitz hurting Chicago Businesses” del New York times, Christina Morales intervista i commercianti della capitale dell’Illinois, i quali rivelano che la dislocazione da parte del presidente delle forze federali nella città non solo ha provocato un innalzamento degli arresti, ma anche una maggiore tensione tra i residenti. La testimonianza dell’intensificazione anche aggressiva dei controlli degli immigrati, spiega una delle persone intervistate, è come mai evidente in quartieri come Pilsen e Humboldt Park, dove i lavoratori e i clienti rimangono a casa e “alcune attività chiudono le loro porte finché non sono sicuri che le persone che vogliono entrare sono veri clienti e non agenti”.

Conclusione

La figura del presidente Donald Trump è la dimostrazione perfetta di come il connubio esibizionismo-politica sia oggi una realtà fortemente pericolosa, un’inclinazione che deve essere osservata con obiettività in modo tale da poter essere contenuta. Quelli che dovrebbero essere concetti contrapposti, nella figura del presidente americano si confondono, quasi a diventare una cosa sola. Il riconoscimento di questi comportamenti è reso ancora più difficoltoso dalle tecnologie sociali che, operando una forte influenza sul pensiero critico delle persone, spesso non permettono al pubblico di captare la vera minaccia che importanti episodi possono rappresentare per la democrazia odierna, oramai “sul bilico”, e spostano invece l’attenzione su questioni di nessuna rilevanza.

Un esempio lampante è forse la questione che di recente ha interessato il noto cantante portoricano Bad Bunny. Mesi fa molti dei suoi fan si sono detti dispiaciuti nell’aver scoperto che il cantante non si sarebbe esibito in nessuna data americana per il suo prossimo tour mondiale che svolgerà nel 2026. Il cantante, parlando con i-D magazine, ha spiegato la motivazione della sua scelta offrendo uno spaccato perfetto dei problemi della nuova politica trumpiana: “il problema era che gli agenti ICE si sarebbero potuti presentare fuori dal mio concerto. È qualcosa di cui abbiamo parlato e di cui siamo molto preoccupati”.

La vera “polemica” è però nata successivamente quando lo stesso ha annunciato che a febbraio sarà presente nell’half time show del Super Bowl, la finale del campionato di football americano della NFL trasmessa sulle tv nazionali. Per questo motivo, molti hanno criticato duramente la decisione del cantante di prestarsi per un’esibizione a questo evento dopo le dichiarazioni fatte. Parlando con la stampa nella briefing room, Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca, alla domanda di un giornalista sull’opinione del presidente, ha riferito che al momento non vi è alcun piano concreto in merito alla presenza di agenti al di fuori del Super Bowl, ma che “ovviamente questa amministrazione continuerà ad arrestare e deportare immigrati illegali. Se vengono trovati, se sono criminali, faremo la cosa giusta per il nostro paese.” Mentre è indubbiamente discutibile che la scelta di Bad Bunny possa non conformarsi all’atto di protesta che questi ha affermato di star realizzando nei confronti del governo americano, la questione sembra oscurare e mettere in secondo piano quella che invece dovrebbe essere più grande: le operazioni pensate dal governo con lo scopo di poter catturare il maggior numero possibile di persone.


Bibliografia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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