Quando la legge ferma lo stato: la dimensione politica dello Shutdown
- advocacylitigation
- 27 ott
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 28 ott
Articolo a cura di Carlotta Bagnoli
Revisionato da Guya Scaringi

Introduzione
Ogni volta che negli Stati Uniti termina la validità della legge di bilancio senza che si raggiunga un accordo tra Congresso e Presidente, si verifica il cosiddetto government shutdown, ossia la sospensione parziale delle attività dell’amministrazione federale. Tale evento comporta la chiusura di numerosi uffici pubblici, l’interruzione di servizi e la sospensione temporanea degli stipendi dei dipendenti federali, messi in furlough. Lo shutdown rappresenta una vera e propria anomalia istituzionale, una peculiarità dell’ordinamento statunitense priva di corrispettivi nei sistemi parlamentari europei e in quelli presidenziali diversi dagli Stati Uniti: ciò che, in questi ultimi, determinerebbe una crisi di governo senza però fermare l’amministrazione, restando quindi fermo il potere dell’esecutivo di finanziare l’attività di governo anche senza un bilancio approvato, negli Stati Uniti si traduce invece in un blocco materiale e funzionale dello Stato.
Lo shutdown come sintomo del sistema americano
Entro il 30 settembre di ogni anno, il Congresso – titolare esclusivo del potere di approvazione del bilancio federale – deve adottare i piani di spesa necessari al funzionamento dell’amministrazione. Quest’anno, per la prima volta dopo sette anni, alla mezzanotte del 1° ottobre, il nuovo anno fiscale è iniziato senza che fosse approvato alcun provvedimento di rifinanziamento. L’incapacità di compromesso dei repubblicani di Trump e dell’opposizione democratica di trovare un accordo politico in merito ha comportato l’arresto immediato di gran parte delle attività pubbliche, con la prosecuzione delle sole funzioni considerate “essenziali”, ovvero quelle legate alla tutela della vita umana e della proprietà, o di quelle comunque già sovvenzionate.
Gli effetti di una simile paralisi delle attività governative sono tangibili e diffusi: la chiusura di parchi pubblici, musei e monumenti priva i cittadini dell’accesso ai luoghi della cultura e della memoria collettiva, segnando una sospensione non solo simbolica ma anche profondamente civile. Gli Istituti nazionali di sanità hanno interrotto l’ammissione di nuovi pazienti, paralizzando temporaneamente la ricerca e l’assistenza medica non urgente — una decisione che solleva rilevanti questioni etiche sulla continuità dei diritti fondamentali in situazioni di stallo politico. La presidente e amministratrice delegata della Catholic Health Association of the United States, suor Mary Haddad, si è espressa in merito incoraggiando la collaborazione dei legislatori per porre fine allo shutdown, che si riversa soprattutto sui più poveri, e a salvaguardare i programmi fondamentali, al fine di evitare un aumento dei costi sanitari e la perdita della copertura sanitaria.
Anche l’amministrazione della giustizia risente delle conseguenze del blocco: i processi civili vengono sospesi o rinviati, con evidenti ripercussioni sul diritto dei cittadini a un equo e tempestivo accesso alla tutela giurisdizionale.
Parallelamente, la NASA è costretta a ridurre drasticamente il personale operativo, mentre diversi programmi di sostegno ai veterani vengono sospesi, privando del necessario supporto categorie già vulnerabili. I finanziamenti federali destinati alle piccole imprese e ai privati cittadini subiscono ritardi significativi, mettendo in luce la natura profondamente asimmetrica degli effetti dello shutdown sul tessuto economico e sociale.
Restano tuttavia operativi i servizi considerati indispensabili: il funzionamento del servizio postale, la riscossione dei tributi, l’assistenza sanitaria di base, nonché le attività delle forze di polizia, dei militari e dei vigili del fuoco. Sono garantiti anche il controllo del traffico aereo e i servizi meteorologici, a dimostrazione di una gerarchia delle priorità pubbliche che privilegia la sicurezza e la continuità istituzionale rispetto alle esigenze culturali e sociali della collettività.
Le basi giuridiche
Alla radice di ogni government shutdown non si trova un semplice stallo politico, bensì un effetto strutturale della stessa architettura costituzionale statunitense, fondata sul principio della separazione dei poteri tra Congresso ed Esecutivo. Esso non rappresenta, dunque, un’anomalia del sistema, ma una crisi funzionale espressamente contemplata dal diritto federale.
In tal senso, l’Articolo I sezione 7 della Costituzione attribuisce al Congresso il power of the purse, ossia la competenza esclusiva in materia di approvazione delle entrate e delle spese federali. Ne discende che nessuna somma può essere erogata in assenza di una specifica legge di stanziamento, attraverso la quale il legislativo esercita un penetrante controllo sull’esecutivo.
Su questo impianto costituzionale si innesta l’Antideficiency Act (ADA), emanato nel 1870 e successivamente modificato, in particolare, nel 1982 e nel 1990. Tale normativa proibisce a qualunque agenzia o ufficio federale di impegnare o spendere fondi non ancora autorizzati dal Congresso, o di assumere obbligazioni che comportino spese future prive di copertura legislativa. La ratio dell’ADA risiede nel garantire un controllo stringente sulla gestione del bilancio e nel prevenire un indebito ampliamento del potere esecutivo in materia di spesa pubblica.
Al fine di evitare l’interruzione immediata dei servizi pubblici e per concedere alle parti politiche un margine di tempo utile alla negoziazione di un bilancio definitivo, l’ordinamento federale contempla un meccanismo di natura temporanea, noto come Continuing Resolution (CR), che consente di prorogare, per un periodo limitato, il finanziamento delle attività amministrative, mantenendo le spese ai livelli precedentemente autorizzati. Tale strumento è divenuto nel tempo un espediente ricorrente, che evidenzia, in realtà, la crescente difficoltà del Congresso di adottare leggi di spesa organiche e tempestive, rivelando una crisi di efficienza legislativa più ampia. Nondimeno, il ricorso alla CR mina l’efficienza complessiva del bilancio federale, facendo leva sui livelli di finanziamento dell’anno precedente, senza tenere conto delle mutate circostanze politiche ed economiche che renderebbero necessaria l’eliminazione di programmi diventati inefficaci o duplicativi perché già introdotti nel corso dell’anno passato.
Sotto il profilo giuridico, lo shutdown si configura pertanto come una sanzione istituzionale automatica: venuta meno l’autorizzazione legislativa alla spesa, l’amministrazione federale è obbligata a cessare ogni attività non essenziale. Non si tratta, dunque, di una decisione discrezionale del Presidente, bensì di un effetto vincolato, imposto dal diritto positivo che, pur rappresentando un’efficace garanzia di disciplina fiscale e di controllo parlamentare sulle finanze pubbliche, espone al contempo il governo federale al rischio di paralisi funzionale, rendendolo vulnerabile alle dinamiche conflittuali tra potere legislativo ed esecutivo.
La dimensione politica dello shutdown
Se sul piano giuridico il government shutdown costituisce l’effetto necessario dell’Antideficiency Act e della rigida separazione dei poteri, sul piano politico esso si trasforma in un vero e proprio strumento di confronto e di pressione. Negli Stati Uniti, la dialettica tra Congresso e Presidente non si esaurisce nell’ambito del processo legislativo ordinario, ma si estende anche alla gestione del bilancio: la facoltà di finanziare lo Stato diventa, in tal modo, un’arma negoziale capace di paralizzare intere funzioni pubbliche. La stessa Costituzione, già a partire dall’eventualità del divided government, contempla il carattere fisiologico di questo tipo di scontro: la possibilità che il Presidente appartenga a un partito diverso rispetto alla maggioranza di una o di entrambe le Camere comporta che, in assenza di un rapporto fiduciario, come nei sistemi parlamentari, la cooperazione tra i poteri dello Stato dipende esclusivamente dalla capacità di compromesso politico. Quando tale equilibrio si rompe, la legge di bilancio non viene approvata e lo Stato, di fatto, si arresta.
Negli ultimi decenni, lo shutdown ha progressivamente assunto la forma di una strategia di negoziazione politica, utilizzata per ottenere risultati anche su questioni estranee alla materia finanziaria. La dottrina statunitense ha definito tale fenomeno hostage-taking politics, ossia una dinamica in cui una delle parti politiche tiene “in ostaggio” il funzionamento dell’amministrazione federale per costringere l’altra ad accettare determinate condizioni. Emblematico, a tal proposito, è lo shutdown del 2013, provocato dal rifiuto della Camera dei Rappresentanti di approvare la legge di bilancio a meno che non fosse revocata la riforma sanitaria nota come Obamacare: un blocco che costò all’economia americana circa 24 miliardi di dollari, dimostrando come il conflitto politico possa tradursi in un danno economico di portata sistemica.
Le cause più recenti degli shutdowns devono essere ricercate anche nella crescente frammentazione interna al Congresso, dove la proliferazione di correnti ideologicamente rigide ha reso più complessa la formazione di maggioranze stabili. In un contesto istituzionale che richiede l’approvazione congiunta di entrambe le Camere e la successiva firma presidenziale, anche un dissenso minoritario può risultare sufficiente a far fallire l’intero processo di approvazione del bilancio. In tal modo, i meccanismi di check and balance, impliciti nella struttura complessiva dell’intero testo costituzionale e concepiti per garantire equilibrio e mutuo controllo tra i poteri, finiscono paradossalmente per divenire essi stessi causa di paralisi istituzionale.
Infine, il fattore economico e quello comunicativo assumono un ruolo non secondario. In un sistema politico fortemente competitivo, lo shutdown viene spesso strumentalizzato per finalità elettorali: i Repubblicani tendono a presentarsi come difensori della disciplina fiscale e della riduzione del debito pubblico, mentre i Democratici si propongono come garanti della spesa sociale e della funzione redistributiva del bilancio federale. Entrambe le parti, tuttavia, mirano a trasferire sull’avversario la responsabilità del blocco, spingendo la crisi fino al limite per poi ricomporla attraverso un compromesso che consenta di preservare, insieme alla funzionalità dello Stato, anche il consenso politico davanti all’elettorato.
Sullo sfondo di questo teatro politico, l’economia paga: si rileva infatti da stime indipendenti che lo shutdown ha un costo giornaliero di almeno 400 milioni di dollari in salari sospesi, cui si aggiungono danni indiretti per un valore previsto di circa 3 miliardi di dollari, causati dalla drastica riduzione di consumi, dal congelamento di investimenti e dai ritardi nella catena di fornitura. La storia insegna che le perdite possono anche essere peggiori: i trentacinque giorni di blocco della struttura amministrativa tra 2018 e 2019, infatti, hanno determinato perdite per 11 miliardi, 3 dei quali ammontanti a perdite permanenti, a dimostrazione del fatto che l’impatto va ben oltre il costo immediato, ripercuotendosi a lungo sulle finanze dello stato (con pagamento di stipendi arretrati, penali, interessi maturati e mancate entrate), e – come non risulta paradossale pensare – sulla fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.
Quando nasce lo shutdown e come si evolve?
Prima del 1980 gli shutdowns non esistevano negli Stati Uniti, essendo facoltà dei governi continuare a spendere anche per attività non essenziali pur senza un bilancio, ferma comunque l’impossibilità di avviare nuovi progetti. La situazione cambiò nel 1981, quando Benjamin Civiletti, primo italoamericano ad assumere la carica di procuratore generale degli Stati Uniti, diede due nuove interpretazioni dell’Antideficiency Act, che culminarono in una lettura molto più restrittiva della suddetta legge, la quale stabiliva che il governo non potesse firmare alcun contratto non “pienamente finanziato’’, con conseguente cessione delle attività degli enti governativi in assenza di approvazione di un piano di rifinanziamento delle spese per l’anno successivo.
Da qui in poi una ventina di shutdowns hanno avuto luogo, con ritorni ciclici che hanno determinato quasi una normalizzazione del disordine.
I primi due shutdowns del governo federale statunitense si verificarono a breve distanza l’uno dall’altro, durante l’inverno tra il 1995 e il 1996. I protagonisti principali di quella crisi politica furono il presidente democratico Bill Clinton e lo speaker repubblicano della Camera Newt Gingrich. Il conflitto verteva sul finanziamento di alcuni programmi di assistenza sanitaria, ambientale ed educativa: i Repubblicani, contrari a tali misure, approvarono al Congresso una serie di leggi di bilancio che non prevedevano i fondi necessari per attuarle. Clinton, quindi, oppose il veto presidenziale, provocando così la paralisi delle attività amministrative per un totale di sedici giorni, al termine dei quali l’opinione pubblica ritenne che il presidente avesse gestito con fermezza la situazione, laddove i Repubblicani vennero accusati di quell’ inutile e dannoso stallo politico.
Un secondo episodio di particolare rilievo si verificò nel 2013, quando l’opposizione repubblicana alla Camera rifiutò di approvare la riforma sanitaria voluta dall’amministrazione Obama nel 2010, l’“Affordable Care Act’’. Anche in quel caso lo shutdown durò sedici giorni e provocò la sospensione dal lavoro, senza retribuzione, di circa 850.000 dipendenti pubblici federali, per un totale di 6,6 milioni di dollari di giornate lavorative perdute. La crisi si risolse solo dopo minimi compromessi da parte dell’amministrazione democratica, e la stampa statunitense interpretò l’esito come una sconfitta politica per i Repubblicani.
Tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019 si verificò un ulteriore shutdown, questa volta innescato dal rifiuto dei Democratici di approvare i fondi richiesti dal presidente Trump per la costruzione del muro al confine con il Messico, per un valore di circa 6 miliardi di dollari. Il blocco si concluse con un accordo che destinava 1,3 miliardi di dollari al rafforzamento dei controlli di frontiera. Il muro, tuttavia, non fu mai costruito.
Lo shutdown dell'ottobre 2025
Questo 31 settembre la maggioranza repubblicana ha respinto il disegno di legge avanzato dai Democratici, che prevedeva una proroga dei finanziamenti federali fino alla fine di ottobre e un incremento della spesa sanitaria di oltre mille miliardi di dollari. Dopo il fallimento di un’ultima votazione, il Senato ha sospeso la seduta, mentre l’Ufficio per la gestione e il bilancio della Casa Bianca ha impartito alle agenzie federali l’ordine di avviare i protocolli per una “chiusura ordinata” delle attività. Con 55 voti favorevoli e 45 contrari, la proposta repubblicana non ha raggiunto la soglia qualificata dei 60 voti necessaria per l’approvazione, determinando così l’avvio del primo blocco amministrativo dello Stato da dopo il 2019. La contrapposizione tra le due forze politiche è rimasta quindi totale: i Democratici, compatti, si sono detti intenzionati a mantenere la situazione di stallo finché il Partito Repubblicano non accetterà le loro condizioni, tra cui la proroga dei sussidi previsti dall’Affordable Care Act (in scadenza a fine anno) e la revoca dei tagli a Medicaid e ad altri programmi di assistenza sanitaria.
Nonostante la circostanza possa apparire simile a quelle viste sopra, in realtà è possibile evidenziare un grande cambiamento.
Se in passato, infatti, lo shutdown era percepito come un disagio temporaneo di fondo, oggi, invece, la sua prospettiva appare ben più rischiosa, a causa di un più fragile contesto macroeconomico: l’inflazione resta elevata, la crescita rallenta e le tensioni geopolitiche aggravano l’incertezza complessiva. In un simile scenario, la paralisi delle attività federali non rappresenterebbe più un semplice incidente politico, ma un potenziale fattore di instabilità economica e sociale.
La vera novità, però, è di natura politica. Secondo denunce di sindacati e osservatori, l’amministrazione Trump avrebbe chiesto alle agenzie federali di predisporre piani di riduzione permanente del personale (Reductions in Force). Non si tratterebbe quindi di una sospensione temporanea, ma di licenziamenti strutturali: un uso dello shutdown come strumento per ridisegnare l’architettura dello Stato federale, anziché come pressione momentanea sul Congresso.
Una simile strategia segnerebbe un cambio di paradigma, con rilevanti implicazioni sociali e legali. Riducendo la forza lavoro pubblica e negando le garanzie previste per il pagamento degli arretrati, si aprirebbero conflitti con i sindacati e questioni di natura costituzionale sul rapporto tra potere esecutivo e amministrazione federale.
Mentre lo shutdown è arrivato al suo decimo giorno, l’amministrazione Trump ha iniziato a licenziare migliaia di dipendenti federali, tra i dipartimenti di Commercio, Istruzione, Energia, Salute e Servizi Umani, Edilizia e Sviluppo Urbani, Sicurezza nazionale e Tesoro. Venerdì 10 ottobre Trump ha dichiarato la volontà di operare tali licenziamenti soprattutto a danno dei democratici, definiti da lui come i responsabili dell’inizio del caos. Non a caso i tagli di venerdì hanno riguardato soprattutto gli uffici che svolgono le attività tipicamente non in linea con l’amministrazione Trump, tra cui le unità destinate alle politiche familiari e comunitarie e quelle relative all’edilizia abitativa equa e paritaria.
Nonostante i licenziamenti, i democratici si sono mostrati fermi a non cedere di fronte alla campagna di pressione della Casa Bianca: nel frattempo, però, lo shutdown avanza, e così la posizione finanziaria dello Stato continua ad aggravarsi.
La maggior parte degli analisti ha una visione pessimistica rispetto alla chiusura, argomentando che la sua durata potrebbe essere più lunga del passato: e se la lunga durata del blocco amministrativo nei casi precedenti non ha inciso in modo irreversibile sui mercati finanziari, invero stavolta il contesto appare diverso. La difficoltà in cui versa il mondo del lavoro, accompagnata da un prolungamento della situazione di stallo e da un imperversarsi dei licenziamenti, potrebbe far deragliare l’economia statunitense. Come ha dichiarato Michael Strain, economista conservatore dell'American Enterprise Institute, un blocco prolungato potrebbe pesare in concreto anche sui mercati finanziari, mettendo sempre più in discussione alcuni dei principi fondamentali che regolano la capacità di funzionamento del governo.
Conclusione
Lo shutdown non è solo un incidente di percorso: è il sintomo di un sistema che confonde il compromesso con la resa. Ogni blocco diventa più lungo, ogni riapertura più fragile, ogni negoziato più stanco. E mentre le istituzioni cercano di riaccendere la macchina, sullo sfondo di una crisi silenziosa fatta di polarizzazione, calcoli elettorali e incapacità di ascolto reciproco, resta una domanda: quanto ancora potrà funzionare un Paese che si spegne da solo?
Bibliografia




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